Tinza e Marianza le sentinelle dimenticate di Trieste

Come in cima alla torre dell’orologio del Municipio due massicci automi scuri, dai nomi pittoreschi – Mikeze e Jakeze – battono ancora le ore con regolarità solenne, così un tempo, all’ingresso dello stesso edificio, due eleganti statue bronzee dalle fattezze femminili accoglievano i visitatori con grazia e fierezza.

Tinza e Marianza, note anche nella tradizione come Tinza e Polonza, erano più di semplici lampioni decorativi, erano vere e proprie figure simboliche, parte integrante del paesaggio urbano e dell’immaginario popolare triestino. Realizzate nel 1876 dallo scultore Fausto Asteo di Ceneda, le due statue di zinco, raffiguranti donne in posa regale, reggevano con un braccio alzato un globo di vetro che fungeva da lampada. Inizialmente alimentate a petrolio e poi convertite all’illuminazione a gas, Tinza e Marianza rischiaravano l’ingresso del Municipio con la loro luce discreta ma costante, come fiaccole silenziose della modernità ottocentesca.

Restarono al loro posto fino agli anni ’30 del Novecento, quando un tragico e banale incidente cambiò il loro destino. Un autocarro, durante una manovra maldestra, presumibilmente tra il 1934 e il 1935, danneggiò gravemente una delle due statue, rendendola irrecuperabile. Da quel momento, entrambe vennero rimosse e trasferite in un deposito comunale, dove svanirono nel nulla.

Da allora, Tinza e Marianza sono avvolte nel mistero. Nessun documento ufficiale ne certifica la fine. Alcune voci suggeriscono che possano giacere dimenticate in qualche magazzino comunale, altre, più pessimiste, ipotizzano che siano state fuse per recuperarne il metallo. In ogni caso, la loro assenza è diventata una ferita nella memoria collettiva cittadina.

Eppure, la loro presenza sopravvive nei racconti orali e nelle filastrocche popolari. In una delle più note, tramandata nei vicoli e nelle piazze, si canta:

“Xe storto el palazo, xe bruta la tore

e Mikeze Jakeze bati le ore,

e Tinza e Marianza le stà sul porton

e le varda le babe che va al liston.”

In questi versi, tra ironia e nostalgia, rivive l’immagine di una Trieste vivace, ironica e profondamente legata ai suoi simboli. Tinza e Marianza, come i loro fratelli Mikeze e Jakeze, non erano solo statue, erano parte dell’identità cittadina, testimoni silenziose di un’epoca e di una cultura che il tempo ha cercato di cancellare.

Oggi il loro ricordo si è affievolito come la luce tremolante di una candela e resta vivo solo nella memoria dei triestini più anziani. Eppure fino a che ogni tanto qualcuno incuriosito si chiederà chi fossero Tinza e Marianza e ci sarà qualcuno pronto a rispondere, loro non saranno mai davvero scomparse.

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